Venerdì 17, alla sezione
dell’Anpi presso l’Angolo, si è provato a ragionare su alcuni libri.
L’intenzione non era quella di ‘esaminarli’ approfonditamente, bensì di
coglierne qualche spunto intorno al nodo della memoria, della Shoah e della
Resistenza e di metterli in dialogo fra loro. Eravamo diciotto, che non è un
numero disprezzabile (neanche tre è un numero disprezzabile, però è un po’ più
triste). C’era persino una anpina di Pancalieri!
Il filo del discorso è stato
questo: la storia, quella dei libri, è o cerca di essere oggettiva e critica.
La memoria invece è più sfumata e legata ai sentimenti: è legata al sacro,
mentre la storia è, o dovrebbe essere, laica. Siamo partiti dal libro “I
sommersi e i salvati” (1986), dove Primo Levi afferma che quello è un libro
«intriso di memoria», e per questo va «difeso contro sé stesso».
A Levi l’idea del ‘testimone’ non piaceva, perché la trovava riduttiva. La
testimonianza è sempre parziale, e raramente ha presente qual è la catena di
cause che ha portato alla situazione testimoniata. Eppure da qualche decennio
il complesso della ‘memoria’ è diventato sempre più centrale nel discorso
pubblico, come dimostra l’istituzione in Italia, nel 2000, del Giorno della
Memoria. Alberto Cavaglion, nel suo libro “La Resistenza spiegata a mia
figlia” (2005), dice che questa data è venuta a contrapporsi a quella del
25 aprile, perché più ‘ecumenica’: il 27 gennaio si celebrano tutti i morti,
tutte le vittime della violenza; il 25 aprile invece è una data più complessa,
che una parte d’Italia preferirebbe dimenticare o non ha mai sentito come sua.
Resistenza a chi? Liberazione da chi e da che cosa?
Su questo spunto abbiamo
cominciato a ragionare sul fascismo e su tre interpretazioni di esso. Benedetto
Croce affermava che il fascismo è una malattia, una parentesi nella storia
italiana. Piero Gobetti, già nel novembre 1922, nell’articolo “Elogio della
ghigliottina”, lo considerava “l’autobiografia della nazione”, cioè
un riassunto di tutti gli atteggiamenti negativi degli italiani: in primo luogo
la rinuncia alla lotta politica. Per i marxisti, fra i quali Gramsci e Bordiga,
costituiva una tappa decisiva della lotta di classe, un colpo di coda del
capitalismo che dimostrava come questo fosse giunto alla fine. Ci sono poi
molte altre interpretazioni, che mettono l’accento di volta in volta sul ruolo
della grande industria, dei ceti medi, oppure dei fittavoli – che, invidiosi
delle conquiste dei braccianti ‘rossi’, si sono uniti alle squadracce per ‘fare
un po’ d’ordine’.
Una delle tesi di Cavaglion
è che non si spiega come il regime fascista sia stato in piedi così tanto tempo
senza tenere conto del consenso che questo ha avuto. Lo stesso vale per il
regime nazista, che è stata una miscela di terrore e forte consenso
(ovviamente, da parte di coloro che non appartenevano alle categorie
perseguitate: ebrei, zingari, omosessuali, comunisti, Testimoni di Geova etc.)
Cavaglion ragiona sulla ‘seduzione’ che Mussolini ha esercitato sul popolo
italiano, e lo fa usando un bel racconto di Thomas Mann, “Mario e il mago”
(1929), dove si parla della vacanza di una famiglia tedesca a Forte dei Marmi,
nel 1926.
Qui il narratore ha modo di
vedere il tronfio nazionalismo, «l’ingenuo abuso di potere e la strisciante
corruzione» del popolo italiano, che si rivelano in piccoli episodi. Gran
parte del racconto è dedicato a uno spettacolo di magia, tenuto dal mago
Cipolla, un uomo sgradevole dai capelli tinti, che fa una serie di numeri
d’effetto e di ragionamenti che onorano il Duce e le sue idee. L’ultimo numero
ha per vittima il cameriere Mario, che i tedeschi hanno già conosciuto in un
caffè; il mago gli fa credere di trovarsi di fronte alla donna di cui è
innamorato e si fa baciare su una guancia. Risvegliatosi, Mario prende una
pistola e gli spara. L’ultima frase del racconto è: «un finale di terrore,
un finale catastrofico. E tuttavia un finale liberatorio». Qui le
interpretazioni possono variare: Mario uccide Cipolla per la violenza che ha
subito di fronte a tutti, o perché il mago non ha mantenuto le promesse?
Ribaltato sul popolo italiano, e su quello tedesco: l’odio postumo per i
dittatori è dovuto al sistema ideologico e alle violenze intrinseche, oppure al
fatto che le promesse (per esempio di grandezza nazionale) non sono state
mantenute? In ogni caso, sulla scorta di Mann, Cavaglion dice che dalla nostra
prospettiva sarebbero certo stati opportuni, se non proprio più colpi di
pistola, almeno più ‘No’ all’interno dei regimi.
Per l’ultima parte della
chiacchierata abbiamo tirato in ballo anche Jean Améry e il suo “Intellettuale
ad Auschwitz” (1966), un libro interessante che condivide con Cavaglion e
Levi l’idea che il
ventennio e il dodicennio non si possono spiegare (e neppure combattere) se non
si sanno riconoscere le responsabilità che non solo in alto, ma anche in basso
li hanno alimentati, tollerati, sopportati, entusiasticamente sostenuti, scelti
come male minore, ammirati, lasciati fare e via dicendo. La caduta del fascismo
e del nazismo non è avvenuta per ribellioni popolari, ma per traumi esterni –
l’alleanza USA-URSS e poi la guerra perduta – e per congiure di palazzo – il 25
luglio 1943 per il fascismo, il 20 luglio 1944 se avesse avuto successo
l’attentato a Hitler. Cavaglion rileva che, in quasi tutti i discorsi della
Resistenza, sembra che l’8 settembre sia l’inizio del fascismo; in realtà non
si tiene conto dei vent’anni precedenti. La Resistenza è stato uno scatto
d’orgoglio e consapevolezza, condotto da una minoranza piuttosto esigua: al cui
interno c’erano anche, indubbiamente, mele marce e situazioni non pure. Non si
tratta allora di monumentalizzare la Resistenza e di darne un’immagine pulita e
limpida, che sarebbe falsa, ma di ‘leggerla’ per dare forza ai nostri sforzi di
oggi.
La lotta per la difesa e l'applicazione della Costituzione
repubblicana risulta rinvigorita dal riconoscimento del carattere incompiuto
della Resistenza i cui limiti frenano nei nostri giorni lo sviluppo della vita
democratica. Uguaglianza, libertà, laicità, tolleranza, pluralismo, rispetto
per le minoranze, legalità, tassazione progressiva dei redditi, istruzione,
lavoro, salute non sono conquiste acquisite una volta per tutte, ma vanno
difese una volta raggiunte e continuamente sottoposte al vaglio del controllo
popolare e della cittadinanza consapevole. Fin qui i ragionamenti di Mario e
Massimo.
La serata è stata poi animata da una discussione su
vari punti, il più interessante dei quali è stato forse il ragionare sui
‘sedotti’ e sulle loro responsabilità. Quali strumenti avevano i contadini e
gli operai degli anni Venti per vedere dietro alle lusinghe di Mussolini?
D’altra parte, però, come è stato possibile, dopo le leggi razziali, fare finta
di niente quando il professore o il collega sono spariti da un giorno all’altro
dal proprio posto di lavoro?
Ci siamo lasciati con tanti dubbi, e con la voglia
di ragionare insieme su queste e altre cose – per esempio: non sarebbe male
incontrarsi una volta per parlare dei primissimi anni del Fascismo, di come è
nato e come si è inserito nella società italiana… alla prossima, dunque.
Massimo Bonifazio
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