venerdì 17 gennaio 2014

UN BRIGANTE CALABRESE

Maria e Valentina, che ho conosciuto al corso di Italiano per stranieri, mi hanno offerto l'opportunità di leggere Saviano. E' stato invece il mio amico Aldo Sandullo a farmi incontrare questo straordinario personaggio ingiustamente sconosciuto della storia calabrese, vissuta ai piedi della Sila fra Vibo Valentia, Amantea, San Lucido, Belmonte, Lago, Campora San Giovanni, Serra d'Aiello.
Sesto di 21 figli tra vivi e nati morti, Stefano De Vito aveva 84 anni quando nel 2007 Antonio Coltellaro lo ha incontrato e ne ha ricostruito la vicenda, sorprendente come una favola, tenera come una storia d'amore fra adolescenti, tragica come un'eroica lotta amaramente sconfitta eppure mai abbandonata. Una lotta che Stefano ha combattuto senza tregua su più fronti. La miseria, la fame e l'emarginazione non lo portarono a scuola, ma nella bottega senza luce di un calzolaio che a sei anni lo faceva lavorare curvo tutto il giorno “a raddrizzare chiodi o a lucidare scarpe”.
Gli dava trenta centesimi alla settimana che doveva consegnare a sua madre. Come il Rosso Malpelo di Verga, “c'era anche a temere che ne sottraesse un paio di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni”. Anche il piccolo Stefano voleva “trattenere qualcosa”, ma rinunciò a farlo perchè la madre “riusciva sempre a trovare i suoi nascondigli”. Un mondo dominato dallo sfruttamento, dalla violenza e dall'oppressione travolgeva ogni resistenza morale e imponeva in ogni famiglia la legge ferrea e spietata della lotta per la sopravvivenza che non guarda in faccia nessuno e non conosce distinzioni e uguaglianze fra genitori, figli e fratelli.
Il fascismo lo comandò alle esercitazioni militari e a salutare il duce con entusiasmo. La guerra lo obbligò a fare il soldato e lo spinse a scegliere la lotta partigiana in Valle di Lanzo e in Val d'Ossola con le Brigate Matteotti. Una lotta poi infuriò, a guerra appena finita, anche contro lo Stato che lo indusse a darsi alla macchia per imboccare la strada del brigantaggio. Catturato, finirà due volte in carcere. Durante quasi vent'anni di detenzione, conoscerà la cella d'isolamento, dove parlava con gli insetti e stava fermo se entrava un topo per non perdere la sua compagnia. Incontrerà anche il cardinal Ratzinger, poi Benedetto XVI: “Sapeva parlare in maniera chiara e semplice – ricorda – e sapeva anche ascoltare con grande attenzione”.
Questo personaggio periferico avrebbe colpito la predilezione di Italo Calvino per gli antieroi, perchè incarnava avventura, sofferenza, mitezza, attaccamento alla libertà, entusiasmo per la vita e per le bellezze della natura. Non ignorava ruvidità e violenza, ma l'immersione quotidiana nell'illegalità non cancellava un codice d'onore sempre rispettato che lo teneva lontano dalla prepotenza del sopruso. Un sentimento ancestrale e misterioso di dignità lo trovava sempre pronto a rischiare per proteggere i deboli e gli oppressi. Alla fine, lasciato il carcere e deposta l'esuberanza degli anni giovanili, il brigante soprannominato il Giuliano della Calabria è approdato alla convinzione sofferta che “l'amore rende la vita degna di essere vissuta”.
Mario Dellacqua



ANTONIO COLTELLARO, La vita di Stefano, brigante calabrese, Stampa Sud, Lamezia Terme 2007, pp.105, euro 10.

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