Maria e Valentina, che ho conosciuto al corso di
Italiano per stranieri, mi hanno offerto l'opportunità di leggere
Saviano. E' stato invece il mio amico Aldo Sandullo a farmi
incontrare questo straordinario personaggio ingiustamente sconosciuto
della storia calabrese, vissuta ai piedi della Sila fra Vibo
Valentia, Amantea, San Lucido, Belmonte, Lago, Campora San Giovanni,
Serra d'Aiello.
Sesto
di 21 figli tra vivi e nati morti, Stefano De Vito aveva 84 anni
quando nel 2007 Antonio Coltellaro lo ha incontrato e ne ha
ricostruito la vicenda, sorprendente come una favola, tenera come una
storia d'amore fra adolescenti, tragica come un'eroica lotta
amaramente sconfitta eppure mai abbandonata. Una lotta che Stefano ha
combattuto senza tregua su più fronti. La miseria, la fame e
l'emarginazione non lo portarono a scuola, ma nella bottega senza
luce di un calzolaio che a sei anni lo faceva lavorare curvo tutto il
giorno “a raddrizzare chiodi o a
lucidare scarpe”.
Gli dava trenta centesimi alla settimana che doveva consegnare a sua
madre. Come il Rosso Malpelo di Verga, “c'era
anche a temere che ne sottraesse un paio di quei soldi: nel dubbio,
per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a
scapaccioni”.
Anche il piccolo Stefano voleva “trattenere
qualcosa”,
ma rinunciò a farlo perchè la madre “riusciva
sempre a trovare i suoi nascondigli”.
Un mondo dominato dallo sfruttamento, dalla violenza e
dall'oppressione travolgeva ogni resistenza morale e imponeva in ogni
famiglia la legge ferrea e spietata della lotta per la sopravvivenza
che non guarda in faccia nessuno e non conosce distinzioni e
uguaglianze fra genitori, figli e fratelli.
Il
fascismo lo comandò alle esercitazioni militari e a salutare il duce
con entusiasmo. La guerra lo obbligò a fare il soldato e lo spinse a
scegliere la lotta partigiana in Valle di Lanzo e in Val d'Ossola con
le Brigate Matteotti. Una lotta poi infuriò, a guerra appena finita,
anche contro lo Stato che lo indusse a darsi alla macchia per
imboccare la strada del brigantaggio. Catturato, finirà due volte in
carcere. Durante quasi vent'anni di detenzione, conoscerà la cella
d'isolamento, dove parlava con gli insetti e stava fermo se entrava
un topo per non perdere la sua compagnia. Incontrerà anche il
cardinal Ratzinger, poi Benedetto XVI: “Sapeva
parlare in maniera chiara e semplice –
ricorda – e sapeva anche ascoltare
con grande attenzione”.
Questo
personaggio periferico avrebbe colpito la predilezione di Italo
Calvino per gli antieroi, perchè incarnava avventura, sofferenza,
mitezza, attaccamento alla libertà, entusiasmo per la vita e per le
bellezze della natura. Non ignorava ruvidità e violenza, ma
l'immersione quotidiana nell'illegalità non cancellava un codice
d'onore sempre rispettato che lo teneva lontano dalla prepotenza del
sopruso. Un sentimento ancestrale e misterioso di dignità lo trovava
sempre pronto a rischiare per proteggere i deboli e gli oppressi.
Alla fine, lasciato il carcere e deposta l'esuberanza degli anni
giovanili, il brigante soprannominato il Giuliano della Calabria è
approdato alla convinzione sofferta che “l'amore
rende la vita degna di essere vissuta”.
Mario
Dellacqua
ANTONIO
COLTELLARO, La vita di Stefano,
brigante calabrese,
Stampa Sud, Lamezia Terme 2007, pp.105, euro 10.
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