domenica 30 marzo 2014

“LA BUONA POLITICA” DI VALDO SPINI.


POTERI FINTI E PRIVILEGI VERI

Chiamato alla Presidenza del Comitato fiorentino per le celebrazioni del quinto centenario della stesura del “Principe”, Valdo Spini non ha resistito alla “stravagante” idea di legare l'evento a questa sua autobiografia politica. L'intento è quello di interrogarsi sulla “impotenza della politica” e sulla sua “incapacità di interpretare i fenomeni del proprio tempo” (p.21). Non poco, anche per un giovanotto che Giorgio, il padre storico, accompagnava non allo stadio, ma alla commemorazione di Piero Calamandrei: attorno ai vent'anni Valdo Spini si è trovato a dover scegliere fra carriera universitaria e funzionariato politico che allontana “psicologicamente” dalla laurea (p.49).
Nella sua biografia, le forze sociali hanno una funzione decorativa e ancillare della lotta per il potere. I contadini compaiono incidentalmente nel 1963 a p.46, poi spariscono. Il movimento sindacale deve aspettare il decreto sulla contingenza del 1984 per irrompere nelle giornate del giovane socialista con il protagonismo di Pierre Carniti e con l'elaborazione di Ezio Tarantelli. Del tutto ignorata per il suo ruolo di propulsore metalmeccanico dell'unità sindacale, la figura di Giorgio Benvenuto lo impegna però come suo concorrente nella scalata alla segreteria socialista del febbraio 1993.

Spini non vuole arruolare Machiavelli tra i maestri di cinismo. Non si accontenta di coloro che, come Foscolo, esaltano il segretario fiorentino perché ha svelato dietro apparenze solenni e protettive, la famigliarità del potere con le lacrime e con il sangue. Si chiede, con Gramsci, chi sia oggi il moderno “Principe”, l'intellettuale collettivo capace di guidare la conquista del potere con una strategia di lotte e di alleanze.

La risposta è di tremenda difficoltà, ma Spini preferisce dedicarsi alla ricostruzione delle avventure politiche che dalla federazione fiorentina del Psi lo hanno portato ai vertici del garofano, in Parlamento e al governo con le sue leggi per abolire la leva obbligatoria o per tutelare la minoranza valdese in Italia. E subito Stefano Folli sul “Sole 24 Ore” conferisce a questa biografia, consumata nei Palazzi del potere in tante lotte lontane dalle classi e dalle lotte sociali, il carattere esemplare ed educativo di una ricerca “degli ideali perduti per non tradire se stessi”.

Già. Chi potrebbe essere il moderno principe oggi, quando la democrazia in crisi (sconosciuta a Machiavelli) deve fare comunque i conti con le dinamiche che presiedono la formazione delle leadership? Spini ci porta nel ginepraio da cui non sa uscire: come il Pci è diventato Pds e la Dc si è convertita in Partito Popolare, così Spini ha proposto ai socialisti di scrivere “laburisti” sulla loro nuova carta di identità. Un “nome socialista, ma diverso da quello tradizionale”, un “buon nome socialista ma nuovo”, un “nome socialista liberale legato alla tradizione di Carlo Rosselli”, un “marchio nuovo” e “assolutamente necessario” per rompere con il passato di Tangentopoli (p.137).

Contorsioni linguistiche penose, giocate con l'azzardo di uno spirito bocciofilo, ma incapaci di spiegare, ad esempio, come mai l'attrezzatura craxiana abbia cucinato gli ingredienti del piatto berlusconiano risultato assai gradito a gran parte dell'elettorato socialista. Spini non si preoccupa di esplorare il mondo delle imprenditorialità emergenti, con il loro arrembante individualismo competitivo, dall'informatizzazione della produzione, dalla precarizzazione del lavoro, dall'esautoramento dei poteri sindacali nell'impresa, dal declino della manifattura, dalle delocalizzazioni che globalizzano il capitale e lasciano sguarnito il lavoro locale.

La stessa Tangentopoli è spiegata con un Craxi che, se si accorgeva di un leader in ascesa con poteri “troppo autonomi rispetto a lui” in periferia, “aiutava un altro a crescergli accanto, in competizione”. Spini riconosce che questo “non era sano, né fisiologico, né fecondo”, ma solo perché “divideva il partito in tanti potentati” fino a incrinarne il controllo centrale (p.114).

La capatina nel regno infido dell'insano (Machiavelli avrebbe detto mai partirsi dal bene, potendo, saper intrare nel male, necessitato”) ottiene così il risultato di attenuare le responsabilità di Craxi. A giudizio di Spini, il leader socialista doveva dimettersi dopo il drammatico discorso del 22 luglio 1992 se voleva salvare per il Psi un ruolo di “motore del rinnovamento” (p.122-123). Inoltre, non avrebbe dovuto ignorare la proposta di legge in materia di trasparenza dei finanziamenti ai partiti (p.124) avanzata proprio da Valdo Spini. Così, lo stesso parlamentare fiorentino si presenta come oppositore rispettoso e inascoltato, come collaboratore refrattario della sua leadership, benché non ignaro della deriva affaristica dominante nell'entourage di Ghino di Tacco. Dal cerchio non venne fuori un quadrato.

Certo che la lotta fu dura, ma fu combattuta con accanimento degno di miglior causa per controllare poteri finti e privilegi veri di una casta subalterna ai potentati dell'Eurozona, “in parte fuori del nostro controllo” come riconosce lo stesso Spini (p. 161). Non si può salvare la struttura produttiva e occupazionale del paese senza mettere in crisi i poteri della finanza o senza mettere “alla prova il processo di risanamento finanziario” (p.164).

Già, ma allora che si fa? Si accantona Berlusconi e si recluta dalle retrovie l'autorità della tecnica con Monti e Letta per confermare politiche economiche di austerità incapaci di rilanciare l'occupazione. Naturalmente, si dice in contemporanea che ci vuole una rivoluzione copernicana e che bisogna fare una politica economica anticiclica e radicalmente alternativa.

Di questo passo, virtù contra furore non prenderà l'arme, ma il the. E l'esito della cura non sarà tranquillizzante.

Mario Dellacqua

VALDO SPINI, La buona politica Da Machiavelli alla Terza Repubblica Riflessioni di un socialista. Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi. Introduzione di Furio Colombo. Marsilio Editore, 2013, pp. 175.

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