La desertificazione industriale è l’aspetto più evidente della crisi economica che percorre l’Italia. Abbiamo gli occhi pieni di servizi televisivi che, in un abbraccio mortale,percorrono il nostro paese, dall’estremo nord all’estremo sud, raccontandoci di licenziamenti e cassa integrazione. Guardando la nostra realtà locale, fuori dal racconto video, viviamo “live” questa trasformazione violenta, profonda e dolorosa che angoscia tanti ma che respiriamo tutti.
None aveva due eccellenze produttive: la
Streglio e l’Indesit. Seppur in campi merceologici differenti rappresentavano
due marchi conosciuti a livello
nazionale. Il paese stesso, oltre ad una fondamentale occasione di occupazione per un congruo numero di residenti, ne
ricavava un beneficio economico allargato a tutta la sua struttura sociale. I
ripetuti passaggi di proprietà della prima società e il succedersi delle
dichiarazioni di fallimento della stessa,
nonché la ristrutturazione per delocalizzazione della seconda, hanno rotto
quell’equilibrio socio/economico preesistente, privando il paese anche di una
parte importante della propria identità. Un’identità estremamente positiva per
l’automatica identificazione del luogo
con la qualità dei prodotti finiti che ivi si producevano . In mancanza di
altre risorse, era la zona industriale il biglietto da visita dell’intero
paese. Sebbene ai margini dell’abitato e architettonicamente freddi e tutti
uguali, gli stabilimenti e i capannoni, erano testimonianza di vitalità
produttiva e benessere sociale. Una decadenza dovuta certamente alla
globalizzazione dei mercati che impone all’Indesit l’allargamento della propria
struttura societaria e la trasmigrazione in siti produttivi a “miglior convenienza”. Per la Streglio è
sintomatico però fare una riflessione e considerare la “decadenza” dall’antica
proprietà facente capo all’eccellenza di Pernigotti per arrivare a recenti
acquirenti, assolutamente estranei al “mestiere”, che tralasciando le
vicissitudini legali, sembrano più pasticcioni che pasticcieri.
Consideriamo ora due nuove realtà industriali
che nascono o si sviluppano in questo quadro di trasformazione generale. Una,
sorta per iniziativa di imprenditori agricoli locali, produce energia elettrica
da biogas ottenuto da liquami animali e
mais. L’altra, già preesistente, amplia alle materie plastiche la propria
attività di riciclo. Entrambe iniziative private assolutamente meritorie perché
assicurano la produzione di energia da fonti rinnovabile e il completamento
virtuoso del ciclo di recupero dei rifiuti. Per quanto ovvio, esse non ricostituiscono l’equilibrio socio/economico
perduto dalla collettività. La loro “portata” occupazionale è minima, così come
è valida la considerazione che la produzione di energia da fonti rinnovabili è
un costo sociale rilevante per la collettività in quanto per l’imprenditore e
sostenibile solo grazie alle ricche sovvenzioni statali. ( Trattando l’ambito
locale è bene tralasciare tali considerazioni che nascono dalla mancanza
assoluta di una precisa politica industriale nazionale. ). Entrambe hanno un
punto in comune: stante il tipo di prodotto trattato, la loro sede lavorativa
prevede una piantumazione a difesa del decoro visivo ambientale. E’ un’immagine
simbolo della crisi: il passaggio dall’ostentata vitalità produttiva dei
capannoni al floreale occultamento dei
rifiuti. Ma ancor più nella sostanza, prima si producevano prodotti finiti di
buon valore che connotavano la società e nel contempo il paese, ora siamo
fornitori di materie prime alla lavorazione di altri e il loro prodotto non
dice niente di noi. Produciamo materie prime anonime di cui non abbiamo il
monopolio. Ci siamo “africanizzati” e scopriamo che per quanto a nord si possa
essere si è sempre il sud di qualcuno.
Mario
Ruggieri
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