domenica 9 marzo 2014

LA MOTOSEGA NELLA FERITA

Può risultare doloroso chiudere i conti con il passato, ma ci vuole il coraggio di averli aperti. E, possibilmente, meglio evitare di tenerli eternamente in sospeso, come azzardano a fare i furbacchioni e gli opportunisti abituati a girare la testa dall'altra parte.

Con la parentesi del fascismo e della guerra, in Italia un esercito agguerrito e variopinto di amanti della vita comoda preferisce celebrare la grande rimozione del passivo accumulato, nella speranza che nessuno si presenti a riscuotere gli arretrati. D'altra parte, chi si chiede come mai uguale disinvolta venerazione circonda la memoria di chi è caduto per combattere a fianco di Hitler e di chi ha perso la vita per sconfiggere il nazifascismo? Basta dire che hanno perso la vita “nel compimento del loro dovere” e non farsi troppe altre domande: nel frattempo, si gonfia il petto di ardore patriottico al canto dell'Inno di Mameli.

Ai combattenti della rinuncia non è poi andata così male. Nella storia, il conteggio dei debiti e dei ricavi ha tempi lunghi e diluibili. Specialmente, gli interessati sono accaniti e tignosi, ma sono pochi e isolati. Le operazioni di nascondimento o di ingigantimento scattano spontanee e silenziose come un ordine segreto, ma perentorio. Chi ci rimette ormai è fuori gioco, in condizione di non nuocere. Invece, i nuovi protagonisti guadagnano legittimazione reciproca e fama di saggezza, mentre indicano la troppa acqua passata sotto i ponti che adesso non macina più.

Gianni Oliva svela “l'alibi della Resistenza” e affonda la motosega nella ferita in un libro del 2003 che il Presidente Roberto Cerchio mi ha proposto di leggere quando il 17 gennaio abbiamo parlato all'Angolo Non Ottuso di Primo Levi, Thomas Mann, Alberto Cavaglion e Jean Améry. Dieci anni di ritardo, che vergogna.

“Per elaborare la memoria della vittoria, tutto ciò che ricorda la sconfitta – scrive Oliva - è indicibile”.

Per esempio: gli alpini che ritornano dalla spedizione di Russia non devono essere visti dalla popolazione. Bisogna tenerli alla larga e questi sono gli ordini perchè fanno “schifo”, scrive Giulio Bedeschi nelle sue “Centomila gavette di ghiaccio”.

Dei tedeschi che hanno massacrato, impiccato, incendiato e torturato non bisogna chiedere il processo con troppa prepotenza: greci, eritrei o jugoslavi potrebbero esigere la pronta consegna dei responsabili italiani di analoghe atrocità. Fucilare Pavolini va bene, ma fucilare Badoglio, l'eroico vincitore di Amba Aradan, il coraggioso traghettatore dell'8 settembre, solo per un po' di iprite versata sulle faccette nere? Non scherziamo.

Delle foibe che hanno inghiottito qualche migliaio di italiani, meglio non parlare perchè la diplomazia occidentale non vuole compromettere il tentativo in corso di aggravare la frattura fra Tito e Stalin: a questo fine, torna utile accreditare l'idea che i morti sono fascisti e collaborazionisti o vittime di vendette private e odi politici al seguito di tutte le guerre. Anche i comunisti italiani apprezzano l'interpretazione: le foibe non sono il prezzo da pagare al progetto di annessione forzata di territori mistilingue e a prevalenza italiana, ma una sordida speculazione per gettare fango sulla Resistenza italiana e su quella jugoslava capace da sola di sconfiggere i nazisti.

La tesi di Oliva scarta consolazioni, annacquamenti e monumentalizzazioni. Come ha scritto Rosario Romeo, “la Resistenza, opera di una minoranza, è stata usata dalla maggioranza degli italiani per sentirsi esonerati dal dovere di fare fino in fondo i conti con il proprio passato”.

Per salvare lo spirito della Resistenza, bisogna rinunciare ad usarla come alibi. Il riscatto è sempre possibile, a condizione che si guardino in faccia sconfitte e vergogne. Altrimenti si offrono vantaggi immeritati ai revisionismi di tutte le risme: chi dice che anche i partigiani erano un po' fascisti perchè usavano la violenza, chi vuole assolvere la buona fede dei ragazzi di Salò, chi invoca la pacificazione non per porre fine al clima talvolta serpeggiante di guerra civile, ma per attribuire uguale dignità a chi ha combattuto per affermare o tenere soffocate le libertà democratiche.

 

Mario Dellacqua

 

GIANNI OLIVA, L'alibi della Resistenza. Ovvero come abbiamo vinto la seconda guerra mondiale. Mondadori 2003.

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