Con la parentesi del fascismo e della guerra, in Italia un esercito
agguerrito e variopinto di amanti della vita comoda preferisce celebrare la
grande rimozione del passivo accumulato, nella speranza che nessuno si presenti
a riscuotere gli arretrati. D'altra parte, chi si chiede come mai uguale
disinvolta venerazione circonda la memoria di chi è caduto per combattere a
fianco di Hitler e di chi ha perso la vita per sconfiggere il nazifascismo?
Basta dire che hanno perso la vita “nel compimento del loro dovere” e
non farsi troppe altre domande: nel frattempo, si gonfia il petto di ardore
patriottico al canto dell'Inno di Mameli.
Ai combattenti della rinuncia non è poi andata così male. Nella storia,
il conteggio dei debiti e dei ricavi ha tempi lunghi e diluibili. Specialmente,
gli interessati sono accaniti e tignosi, ma sono pochi e isolati. Le operazioni
di nascondimento o di ingigantimento scattano spontanee e silenziose come un
ordine segreto, ma perentorio. Chi ci rimette ormai è fuori gioco, in
condizione di non nuocere. Invece, i nuovi protagonisti guadagnano
legittimazione reciproca e fama di saggezza, mentre indicano la troppa acqua
passata sotto i ponti che adesso non macina più.
Gianni Oliva svela “l'alibi della Resistenza” e affonda la
motosega nella ferita in un libro del 2003 che il Presidente Roberto Cerchio mi
ha proposto di leggere quando il 17 gennaio abbiamo parlato all'Angolo Non
Ottuso di Primo Levi, Thomas Mann, Alberto Cavaglion e Jean Améry. Dieci anni
di ritardo, che vergogna.
“Per elaborare la memoria della vittoria, tutto ciò che ricorda la
sconfitta – scrive Oliva -
è indicibile”.
Per esempio: gli alpini che ritornano dalla spedizione di Russia non
devono essere visti dalla popolazione. Bisogna tenerli alla larga e questi sono
gli ordini perchè fanno “schifo”, scrive Giulio Bedeschi nelle sue “Centomila
gavette di ghiaccio”.
Dei tedeschi che hanno massacrato, impiccato, incendiato e torturato
non bisogna chiedere il processo con troppa prepotenza: greci, eritrei o
jugoslavi potrebbero esigere la pronta consegna dei responsabili italiani di
analoghe atrocità. Fucilare Pavolini va bene, ma fucilare Badoglio, l'eroico
vincitore di Amba Aradan, il coraggioso traghettatore dell'8 settembre, solo
per un po' di iprite versata sulle faccette nere? Non scherziamo.
Delle foibe che hanno inghiottito qualche
migliaio di italiani, meglio non parlare perchè la diplomazia occidentale non
vuole compromettere il tentativo in corso di aggravare la frattura fra Tito e
Stalin: a questo fine, torna utile accreditare l'idea che i morti sono fascisti
e collaborazionisti o vittime di vendette private e odi politici al seguito di
tutte le guerre. Anche i comunisti italiani apprezzano l'interpretazione: le
foibe non sono il prezzo da pagare al progetto di annessione forzata di
territori mistilingue e a prevalenza italiana, ma una sordida speculazione per
gettare fango sulla Resistenza italiana e su quella jugoslava capace da sola di
sconfiggere i nazisti.
La tesi di Oliva scarta consolazioni,
annacquamenti e monumentalizzazioni. Come ha scritto Rosario Romeo, “la
Resistenza, opera di una minoranza, è stata usata dalla maggioranza degli
italiani per sentirsi esonerati dal dovere di fare fino in fondo i conti con il
proprio passato”.
Per salvare lo spirito della Resistenza,
bisogna rinunciare ad usarla come alibi. Il riscatto è sempre possibile, a
condizione che si guardino in faccia sconfitte e vergogne. Altrimenti si
offrono vantaggi immeritati ai revisionismi di tutte le risme: chi dice che
anche i partigiani erano un po' fascisti perchè usavano la violenza, chi vuole
assolvere la buona fede dei ragazzi di Salò, chi invoca la pacificazione non
per porre fine al clima talvolta serpeggiante di guerra civile, ma per
attribuire uguale dignità a chi ha combattuto per affermare o tenere soffocate
le libertà democratiche.
Mario Dellacqua
GIANNI OLIVA, L'alibi della Resistenza.
Ovvero come abbiamo vinto la seconda guerra mondiale. Mondadori 2003.
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