giovedì 11 dicembre 2014

RITROVARE L'ORGOGLIO DELLE NOSTRE PAROLE

Un anniversario come pretesto. Prendiamo il 1989. Dei pluricelebrati eventi innescati come tante detonazioni a catena da quel novembre di 25 anni fa, abbiamo digerito tutto: il crollo del muro di Berlino, la fine dell'Unione Sovietica, il trionfo su scala planetaria dei grandi poteri della finanza e dell'industria multinazionale. Nei “trenta anni gloriosi” compresi fra il 1945 e il 1975, quei poteri erano stati costretti a stabilire un compromesso dinamico con i poteri del movimento operaio. Ma oggi il capitalismo neoliberista (o il finanzcapitalismo come lo ha chiamato il prof. Gallino in un libro del 2011) si può riprendere tutto lo spazio che aveva ceduto. I poteri delle classi lavoratrici, invece, arretrano e si indeboliscono, la loro unità si frantuma.
Molti non hanno ancora digerito la fine del Pci e da 25 anni oscillano tra rancore, stupore, rassegnazione, silenzio e impotenza. Sul numero 1076 di “Internazionale”, il direttore Giovanni De Mauro ha scritto che “con la fine del Pci scomparve un luogo importante a cui appartenere. Ma non vennero meno le ragioni della sua esistenza, né i diritti da difendere o le classi sociali per cui parteggiare”. A distanza di anni, tante persone hanno ingoiato (subito? deriso? accettato? esaltato?) l'eclisse della loro partecipazione alla vita democratica. Un divorzio senza scandali. Un esodo biblico senza clangori. Molto deserto e niente manna dal cielo.
Alla sezione scomparsa si è sostituito il comitato elettorale che si riunisce febbrilmente alla vigilia della crocetta sul simbolo e poi sparisce. Il leader ha svuotato il partito e se ne è impossessato. Al volantino discusso, scritto, titolato e diffuso in squadra si è preferita la droga miserabile del “mi piace” e del “condivido”. Il gossip televisivo ha tolto posto e tempo alla lettura del giornale e del libro. Il sindacato che contratta e cerca con le controparti pubbliche e private intese sempre migliorabili è stato soppiantato dal sindacato che assiste individualmente e proclama scioperi dimostrativi dopo aver rilasciato dichiarazioni bellicose sull'uscio di Palazzo Chigi. Al posto dell'impegno per conquistare sapere e saper fare è arrivato il tifo per il leader giudicato sulla simpatia dell'eloquio e del vestito, non sulla persuasività di programmi e principi: lo puoi pertanto usare e gettare al primo suo colpo sbagliato sul mercato elettorale.
Non ho dubbi che bisogna risalire la corrente in direzione ostinata e contraria, se si vuol evitare che senza partiti questa democrazia rimanga anche senza elettori. Deve tornare la sinistra, la sezione, il partito, il movimento sindacale unitario. Con un'innovazione decisiva che mi piacerebbe discutere e approfondire: non più il partito che lotta contro tutti gli altri per l'egemonia, per il voto e per arruolare una schiera di fedelissimi aspiranti al ruolo di assessore, sindaco o parlamentare, ma una rete di collettivi liberamente pensanti e operanti nel luoghi della vita quotidiana per impegnarsi a sperimentarne il concreto miglioramento usando le armi di relazioni plurali e solidali.
Le parole degli altri sono riforma, flessibilità, austerità, competizione, mercato, crescita, pareggio del bilancio. E' arrivato il momento di ritrovare l'orgoglio delle nostre parole: uguaglianza, dignità del lavoro, beni comuni, legalità, pluralismo, istruzione, salute, solidarietà, qualità della vita, cibo sano, eleganza dell'anima e non volgarità della parola, convivialità, bellezza dell'arte, della musica, dei paesaggi e dei viaggi che riempiono le valigie e contaminano il pensiero. La rivoluzione che vogliamo non è opera di minoranze eroiche che diventano fanatiche e dittatoriali, ma di comunità libere in continuo movimento del pensiero e dell'azione, affratellate dal piacere di condividere il comune impegno a partecipare attivamente e criticamente alle vicende del mondo. In questa lunga marcia di autoeducazione collettiva, il nostro obiettivo è mutare le cose rispettando le persone, come diceva Vincenzo Padula, un grande prete dell'Ottocento calabrese.
Certo che abbiamo un piccolo problema: quello di raggiungere ogni singola persona e conquistarla all'idea che solo insieme ad altre può migliorare le proprie condizioni di vita, ridurre le disuguaglianze, combattere le solitudini, non cedere al fascino della violenza, resistere all'ignoranza e vivere più allegri.

Mario Dellacqua

Nessun commento:

Posta un commento