E’
proprio vero che l’applicazione dell’art. 18 scoraggia gli
investimenti stranieri? I costi sono in effetti molto elevati,
specialmente se la sentenza dovesse dare ragione al lavoratore, ma si
tratta di poche decine di casi all’anno. Le procedure in Tribunale
si rivelano molto lunghe e nella stragrande maggioranza dei casi
terminano o in accordi di conciliazione patrocinati dal giudice o in
rinunce. Le lungaggini lamentate da più parti non possono essere
ascritte alla norma, e non si vede perché non si debbano introdurre
disposizioni che facilitino un funzionamento più snello della
burocrazia italiana.
Va
precisato che in Italia licenziare per ingiustificato motivo non è
possibile per nessuno, anche nelle aziende sotto i 15 dipendenti o
sotto i 5 dipendenti. La sanzione c’è sempre, ma il reintegro è
previsto solo sopra i 15 dipendenti. Piuttosto, va incoraggiata la
proposta che sta maturando nel movimento sindacale - e nella Cisl in
particolare - per estendere anche alle aziende sotto i 5 dipendenti
le tutele della legge 223 in materia di procedure per le riduzioni di
personale, per la cassa integrazione e per la mobilità.
Il
giuslavorista Pietro Ichino propone di rivedere l’art.18 e di
sbloccare la rigidità in uscita perchè convinto di facilitare per
questa via l’incremento degli ingressi al lavoro. Il senatore
democratico parte dalla convinzione che la difficoltà di far
crescere l’occupazione può essere combattuta solo se si fornisce
alle imprese una più incisiva discrezionalità imprenditoriale
accompagnandola sempre con un pesante onere economico (indennità a
suo carico) anche nei casi di riduzione personale (licenziamenti) per
“giustificato motivo”. E’ scartata ogni ipotesi sindacale di
manovre sugli orari (cui ormai solo Pierre Carniti e Nicola Cacace
sono legati) che rimane la manovra più efficace per creare
(suddividendolo) il lavoro tra chi lo possiede e chi no! Come ha
fatto gran parte delle industrie tedesche. Ichino pensa invece che
l’unica redistribuzione del lavoro possibile sia quella di ridurre
i costi e di acquisire competitività attraverso l’indebolimento
dei diritti e delle tutele per oliare la flessibilità.
L’articolo
18 non regola la flessibilità in uscita. E’ una garanzia contro i
licenziamenti senza giustificato motivo. Il motivo economico (crisi
aziendale, ristrutturazione aziendale) è già considerato dalle
nostre norme contrattuali e legislative un giustificato motivo.
Sempre Pietro Ichino insiste nel proporre che le garanzie dell’art.18
(riservate ad alcuni lavoratori mentre altri sarebbero relegati in
condizioni di apartheid)
siano “spalmate” su tutti in modo più equanime, togliendo ad
alcuni per dare qualcosa a tutti.
La
maggiore flessibilità incamerata dalle imprese e subita dai
lavoratori più esposti di prima al rischio dell’uscita dovrebbe
esser compensata dall’innovativa introduzione di una riforma degli
ammortizzatori sociali. Per questa via (lavoratori garantiti dal
welfare riformato per i periodi di inattività forzata e imprese
rinfrancate da una maggiore libertà nella selezione della
manodopera) si conta di aprire spazi ai giovani e di attirare
investimenti esteri e italiani.
La nostra obiezione è una sola.
A partire dal 1978, questa strada è già stata ampiamente intrapresa
(eccezion fatta per i provvedimenti a tutela della disoccupazione) e
ogni rigidità in uscita è stata sfondata, nel settore industriale,
simbolicamente e praticamente con l’ottobre 1980: da allora
lo stillicidio in uscita dei lavoratori non si è arrestato in quanto
nel nostro paese non sono attivate serie politiche di formazione (in
periodi di Cig, di mobilità e di disoccupazione) finalizzate alla
flessibilità-mobilità da posto a posto di lavoro.
Ora,
la via percorribile nel nostro paese non è più quella di abbassare
i salari dei lavoratori nel settore pubblico e in quello privato, ma
quella del funzionamento della macchina pubblica (formazione, liste
di mobilità) per attuare finalmente il passaggio da posti di lavoro
obsoleti a nuova occupazione. Per realizzare questo funzionamento, è
indispensabile che siano attivate pienamente quelle norme della
Pubblica Amministrazione che consentono il trasferimento e la
mobilità dei lavoratori per necessità del paese e non solo per
l’interesse del singolo lavoratore, come avviene da sempre.
Tenere
conto di tutto ciò è doveroso, se si vuole fronteggiare la crisi e
se si vuole puntare alla ripresa pensando alla tutela dei ceti
subalterni. Così anche il Pd potrebbe uscire dalla sua altalena tra
Ichino, Veltroni e Fassina.+
Adriano
Serafino e Mario
Dellacqua
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