Quando
spiega la Resistenza a sua figlia, il prof. Alberto Cavaglion mi
sembra muoversi nella stessa direzione di Améry. Non si accontenta
di solenni condanne o di tardive autoassoluzioni. Lo fa senza
proporre modelli. Non cerca emozioni, commozioni, entusiasmi e
ammirazioni, ma sceglie l'ispirazione asciutta e antieroica delle
domande scomode che finiscono per illuminare chi vuole salvare e non
santificare lo spirito della Resistenza. “Bisogna
scrivere anche le cose sgradevoli”,
afferma Cavaglion a pag. 86. Ciò significa non temere la scoperta
dei suoi errori e anche delle sue vergogne: significa saperle vedere
come un limite che interroga continuamente l'autobiografia della
nazione, le zone grigie, le collaborazioni e i consensi che, in alto
e in basso, nelle classi subalterne non meno che in quelle dirigenti,
hanno permesso vent'anni di regime. Significa sapere sempre che
bisogna fare attenzione, come direbbe Calvino nei suoi “Sentieri
dei nidi di ragno”,
a non stare troppo legati alla ruota che ci macina, fatta di “quel
furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici
uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti”.
Ma è un repertorio di “gesti
perduti”,
di “inutili
furori, perduti e inutili anche se vincessero, perchè non fanno
storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore
e quell'odio” che
pure vorrebbero estirpare una volta per tutte.
Per
spiegare la parabola del fascismo, Cavaglion si serve di “Mario
e il mago”,
il protagonista di una novella di Thomas Mann nella quale i ruoli
dell'incantatore e dell'incantato, del sedotto e del seduttore
compaiono svelati nella loro complementarietà, solo apparentemente
antagonistica. L'incantato si libera dell'incantatore e lo uccide
solo dopo aver collaborato all'inganno con lo spettacolo della sua
gioiosa e goffa umiliazione. Non sottopone a critica il regime delle
promesse che sollecitano fedele dipendenza e servile attesa.
Semplicemente, constata con sdegno il tradimento della parola data
dal potere costituito. Semplicemente, si limita a contestare la
beffarda consumazione dell'inganno. Il baratto tra rinuncia alla
libertà e concessione, in cambio, di uno spicchio di benessere e di
privilegio non è condannato, giacchè la protesta insorge
esclusivamente contro il mancato rispetto dei patti, non contro il
commercio di dignità e di pensiero. In questo regime, fra ubbidire e
comandare corre una segreta coincidenza. I ruoli sono
interscambiabili: sono “un
solo principio, un'indissolubile unità; chi sa ubbidire sa pure
comandare, e inversamente; un pensiero è compreso nell'altro, come
popolo e duce sono compresi uno nell'altro”.
E il duce è organizzatore del “durissimo
e instancabile lavoro”
che fonde volontà e obbedienza, servitù e comando in una sola
identità, nata dalla rinuncia alla propria che è stata proiettata
capovolta su un altro con le sue debolezze e fragilità.
“La
fuga dalla debolezza offerta dal regime – scrive
Herta Muller, premio Nobel per la letteratura nel 2009
- significava compiacere la forza del potere, rinnegare se stessi e
adattarsi al servilismo per poter andare avanti. Non si doveva dare
la possibilità di far nascere una sensibilità che si risollevasse
da sola e se la cavasse senza questa fuga". Parlava
di Ceausescu, ma occorre riconoscere che i meccanismi del
totalitarismo hanno leggi affascinanti e fisse nel tempo e nello
spazio.
Cavaglion
non perde occasione per ricordare che il fascismo è caduto da solo.
Fu il catastrofico andamento della guerra l'origine della congiura di
Palazzo del 25 luglio, non la ribellione popolare. Ritiene sbagliato
e inefficace dipingere la dittatura a tinte fosche e truci come un
regime sanguinario. Il successo del fascismo e il consenso che legava
il Duce alle masse popolari nacque dalla capacità di miscelare la
brutalità strettamente necessaria ad alimentare la continuità del
potere con la grande seduzione. Resta però aperta una domanda
scomoda: le responsabilità dell'imbonitore sono evidenti, ma quelle
degli incantati? Li assolviamo? La mia risposta secca è no.
Tuttavia, leggere il fascismo di ieri (o il berlusconismo di oggi)
usando la chiave interpretativa della fascinazione, della
manipolazione massmediatica, dell'illusionismo collettivo, non
spalanca la comprensione dei fenomeni e presenta molti rischi che
bisogna saper correre. Il più minaccioso è quello di spaccare il
paese in due: da un lato le vittime docili del raggiro, dall'altro le
minoranze etiche e riflessive che però non riescono a trasmettere
quello che riflettono ai comportamenti delle grandi masse, troppo
spesso considerate in stato di perenne minorità. “Volete
che chi è stato fino a ieri uno schiavo diventi un uomo?
Incominciate a trattarlo, sempre
– scriveva Gramsci nel 1919 - come
un uomo; e il più grande passo in avanti sarà già fatto”.
La
domanda di Thomas Mann che Cavaglion riprende e ci getta in faccia,
pesa sul futuro, non lascia in pace le nuove generazioni e le chiama
in causa. Non trova risposta nella monumentalizzazione obsoleta e
frustrante dei martiri. Ha bisogno di pazienza, coraggio
e...resistenza.
Maiuscola e minuscola. Ma
senza le minuscole consapevolmente intrecciate, le maiuscole sono
zoppe nella pagina e non sono capaci di arrivare a destinazione con
parole spendibili.
Mario Dellacqua
JEAN
AMERY,
Intellettuale ad Auschwitz, Bollati
Boringhieri.
ALBERTO
CAVAGLION,
La resistenza spiegata a mia figlia, L'Ancora,
2005.
THOMAS
MANN, Mario
e il mago,
1930.
HERTA
MULLER, Il
fiore rosso e il bastone,
Keller 2012.
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