Per rispondere a quanto la figura di don Milani abbia
influito sul mio agire e su quello del sindacato di quel tempo ho scelto due
periodi.
1964
A quel tempo
facevo parte di un gruppo di giovani cattolici di Rivoli le cui azioni si
concretizzavano anche nella stampa e nella diffusione di un periodico: “Il
Tamburino”. Ed infatti ci chiamavano “quelli del Tamburino”, ragazze e ragazzi
che speravano molto nel Concilio Vaticano II di Papa Giovanni XXIII e nel
messaggio politico della “nuova frontiera” dei fratelli Kennedy. Si opponevano
con determinazione al modello politico-sociale del sistema comunista ma stimavano
i comunisti per la loro dedizione alla ricerca del riscatto sociale dei proletari,
per la loro coerenza nei comportamenti nel perseguire obiettivi che - per
quelli di breve e medio termine - non
erano assolutamente lontani dai nostri.
Il nostro era un gruppo affiatato, impegnato nel confronto tra cattolici, socialisti e comunisti, molto attivo nel confronto dialettico con le gerarchie cattoliche locali e torinesi contestate perché troppo vicine ai potenti e troppo distaccate dai lavoratori. La polemica era molto vivace anche sul tema della non violenza e dell’obiezione di coscienza al servizio militare, tema sul quale operavamo collegati con il Centro della non violenza valsusino diretto da Don Viglongo, Sereno Regis e da militanti della Fim-Cisl della Moncenisio (erano Achille Croce e Luciano Momo).
Il nostro era un gruppo affiatato, impegnato nel confronto tra cattolici, socialisti e comunisti, molto attivo nel confronto dialettico con le gerarchie cattoliche locali e torinesi contestate perché troppo vicine ai potenti e troppo distaccate dai lavoratori. La polemica era molto vivace anche sul tema della non violenza e dell’obiezione di coscienza al servizio militare, tema sul quale operavamo collegati con il Centro della non violenza valsusino diretto da Don Viglongo, Sereno Regis e da militanti della Fim-Cisl della Moncenisio (erano Achille Croce e Luciano Momo).
A quel tempo Don Milani era in pieno conflitto con le gerarchie
ecclesiali, noi conoscevamo i suoi
scritti e dopo un breve scambio epistolare decidemmo di andare a trovarlo a
Barbiana nel Mugello. Era la primavera del 1964 e per noi era già un forte ed
importante esempio di vita e di pensiero.
Nell’incontro a Barbiana fummo profondamente coinvolti ed affascinati
dall’organizzazione di quella piccola comunità, dalla serenità e dalla
consapevolezza dei ragazzi; attratti dal metodo, dall’intensità e dalla qualità
di un impegno educativo finalizzato alla loro emancipazione. Un esempio
che ci sembrava possibile ripetere ed estendere.
Allo stesso
tempo, fummo colpiti della rigidità e della severità manifestata da Don Milani
verso chi fumava e giocava a carte; rimanemmo perplessi anche perché il nostro
gruppo era solito, dopo l’impegno politico e sociale, far tardi a notte nella
cantina di qualcuno di noi attorno ad un salame, un formaggio, una bottiglia ed
alcune sigarette, un modo conviviale per continuare le animate discussioni che non
finivano mai. Ed una boccata di fumo ci stava tutta e non aveva certo la
valenza odierna di dipendenza ed ostentazione di una sicurezza che non c’è. Non
ci fu il tempo per approfondire il problema e così rimase irrisolto
l’interrogativo di cosa pensasse Don Milani sul gioco, sul divertimento, sulla
trasgressione. Ne discutemmo tra di noi convincendoci che Don Lorenzo era sì un
bravissimo maestro, un grande pedagogo ma anche un autoritario un po’
bacchettone.
1967
Fu l’anno della diffusione del libro “Lettera ad una professoressa”
che fece definitivamente conoscere Don Milani in tutta Italia ed oltre i
confini. Fu un pugno nello stomaco ad una casta di insegnanti che si credeva
intoccabile e non è inutile ricordare che la stragrande maggioranza di loro
proveniva ancora dall’educazione fascista del ventennio: dalla fine della
guerra erano poi trascorsi solo 22 anni. L’impatto che il libro ebbe
nell’ambiente sindacale fu fortissimo. Da tre anni io avevo lasciato l’impiego
alla Olivetti come ricercatore elettronico (allora i distacchi sindacali non
potevano andare oltre i 18 mesi) ed avevo scelto il sindacato a tempo pieno
presso la Lega Fim-Cisl della Fiat Mirafiori, dove avevamo avviato esperienze
d’informazione per i militanti sindacali che operavamo in una realtà di oltre 56.000
lavoratori, la prima per dimensione in Europa. Si stampavano periodici (Notizie
Sindacali, La Lega…) si faceva contro-informazione a “La Stampa” il quotidiano
torinese di proprietà della famiglia Agnelli e detta allora la busiarda;
si facevano incontri di formazione e studio al sabato pomeriggio.
La chiarezza e la semplicità di quel libro nell’esprimere
concetti fondamentali sulla vita sociale, sulla giustizia e sulle disuguaglianze,
ebbero su di noi un effetto galvanizzante -come l’effetto di “ mettere un
tigre” in un motore che già ben girava -la sensazione che da lontano
qualcuno capiva ciò che si stava facendo in fabbrica e che addirittura partiva
dall’ambito scolastico. Una scuola che a noi aveva dato nozioni ma non una cultura
di appartenenza. Avemmo la sensazione di avere una forza ben più grande di
quella che avvertivamo ai cancelli, quando ancora in pochi ci trovavamo a
discutere ed a distribuire volantini ai lavoratori. Demmo a quel libro il
valore di una sorta di carta rivendicativa sociale. Si diffuse
rapidamente anche grazie al contributo straordinario del Movimento Studentesco
e di insegnanti.
Quel libro
era, ma non solo, una requisitoria contro la scuola di classe, che lasciava
indietro i “Pierini” e gli svantaggiati di ogni tipo. Ancora oggi quel j’accuse
desta emozioni e divisioni; detto questo, non voglio inoltrarmi in
un’analisi dello stato della scuola odierna. In quel libro c’era un messaggio
fondamentale che si rivolgeva alle classi degli umili, dei contadini sparsi
nelle campagne come degli operai intruppati nelle voraci fabbriche e soli
anche loro davanti alle macchine. Quel messaggio era il sapere,
l’importanza del sapere che noi chiamammo in seguito operaio… Ciò
che lui diceva “se il padrone sa duemila parole tu ne devi sapere duemila e
una” era - ed è- la condizione preliminare per conoscere il valore dei
propri diritti oltre che dei doveri e di lottare contro le ingiustizie senza
cadere nella faciloneria e nel populismo. E noi sottolineavamo l’importanza che
quel sapere fosse conseguito collettivamente, il che necessitava di un
metodo caratterizzato dall’assunzione di responsabilità da parte di tutti i
partecipanti. Questo sapere era importante ieri e dovrebbe esserlo ancora oggi,
in un mondo ove prevale l’individualismo.
In quegli anni prendeva forza una nuova Fim-Cisl (cito per tutti Alberto Tridente a
Torino, e Tonino Chiriotti nel pinerolese), avanzava l’unità d’azione nelle
fabbriche e per realizzare la
contrattazione articolata, cioè i premi di produzione conquistati per la prima
volta con il rinnovo del Contratto Nazionale del 1963, era proprio
indispensabile organizzare e promuovere il sapere collettivo dei
lavoratori. Per negoziare con successo era necessario conoscere i dati dell’organizzazione
del lavoro e di tutto il processo produttivo. Non era cosa semplice, la “spinta
propulsiva” di quel libro ci aiutò molto ed influenzò anche il Contratto
Nazionale del 1973 quando si conquistò l’innovativa norma delle 150 ore, cioè
il diritto allo studio retribuito.
Il contesto di ieri e di oggi
A quarant’anni dalla morte di Don Milani, la scuola di Barbiana non è
più un riferimento e la sua stessa biblioteca è in disuso e rischia l’oblio.
Molti si chiedono se quell’esperienza, quel metodo potrebbero ancora servire
alla scuola italiana che si presenta quasi come un’agenzia sociale debole e settorializzata.
A parer mio si dovrebbe tener conto del contesto socio-economico, culturale e
politico profondamente mutato in questi quarant’anni che cercherò di
sintetizzare nei punti che ritengo più rilevanti.
¨
Allora la composizione sociale nella scuola
dell’obbligo era ben diversa, erano
presenti le nuove generazioni della immigrazione interna (da regione a regione)
ma del tutto sconosciuta quella europea ed extra-europea. L’insegnante era una
figura temuta e rispettata nel ruolo di educatore e di trasmettitore del sapere
con uno status sociale ben definito. Oggi una gran parte degli allievi già
conosce molte cose e non poche famiglie spesso agiscono come i primi “avvocati
difensori” quando l’insegnate riprende il proprio figlio. Una consistente
fascia di insegnanti è oggi demotivata. Gli studenti, in particolare nel
decisivo ciclo della scuola secondaria e superiore, sono influenzati e formati
forse più dalla televisione, dalla catena degli sms, dal navigare su Internet, dal viaggiare e dalla mobilità territoriale
che dai programmi della pedagogia scolastica. Nel mondo scolastico, fin dalla
primaria, si completano cicli di studio con forti debiti di apprendimento che
non vengono più recuperati (difficoltà a scrivere e fare di conto) mentre nella società moderna cresce il fenomeno
dell’analfabetismo di ritorno.
¨
Allora nella società circolavano poche notizie
oggi ne siamo sommersi tanto da risultare paradossalmente disinformati; oggi
selezionare le notizie è più difficile di ieri, così pure leggere i giornali sempre
più voluminosi e simili (come i telegiornali).
¨
Allora la produzione era stabilizzata nel
processo e nei prodotti mentre s’intensificava la produttività a carico del
lavoratore; oggi le innovazioni tecnologiche e scientifiche si succedono con
rapidità, la globalizzazione dell’economia ha dilatato i confini facendo
constatare a tutti che il mondo è ben più ampio e complesso di quanto
immaginavamo.
¨
La scuola allora bocciava (e la selezione
risultava particolarmente severa per i figli delle famiglie povere), oggi si è promossi anche con il poco sapere.
In nome della lotta all’esclusione si trascinano ai diplomi giovani demotivati
ed ignoranti non solo delle materie scolastiche, C’è una scuola ed un corpo
insegnanti –fatte le debite e sempre più rare eccezioni- che non riesce più a
rinnovarsi…..
¨
All’uscita della “Lettera ad una professoressa”
era ancora forte l’influenza del messaggio della speranza dei grandi personaggi
scomparsi nel 1963 (Papa Giovanni XXXIII, Martin Luther King, J.F.Kennedy);
erano ancora in vita gli ultimi educatori-profeti
come Don Milani (morirà dopo pochi mesi) , come Ada Gobetti e Aldo Capitini (che
moriranno nel 1968). Oggi, nell’era dei televisivi ed informatici, le opinioni
di massa (generiche e volubili) si
formano seguendo i talk-show, i reality show, meno con gli strumenti della
narrativa e della saggistica. Infine, la
politica ha smarrito il suo vero fine facendo aumentare l’indignazione e la disistima
anche a chi desidererebbe impegnarsi con assiduità.
Quel metodo serve ancora
Come spesso avviene la storia riconosce solo dopo molti anni i meriti
di chi nella sua contemporaneità era stato messo ai margini e censurato. Oggi
anche la Chiesa rivaluta la figura di quel prete controcorrente, punito
ed esiliato. E’ certamente importante questo tardivo riconoscimento ma ancora
di più sarebbe difendere l’attualità di quel metodo per la scuola nella società
moderna riproponendolo, poiché si reggeva su punti fondamentali per
l’emancipazione della persona, la diffusione del sapere, l’assunzione di
responsabilità e con esso il rispetto dei ruoli. Sintetizzo i punti principali
di quell’esperienza che è ancora attuale e servirebbe molto oggi con i
necessari aggiornamenti.
¨
La scuola di Barbiana sperimentò con successo una
pedagogia innovativa dando la parola agli allievi e chiedendo in cambio dedizione
allo studio, partecipazione e senso di responsabilità alla vita comunitaria
della scuola, interessamento agli altri e soprattutto a chi manifestava
difficoltà transitorie o permanenti. Quando Don Milani propose questo modello
non era certamente per incentivare gli studenti a mandare “affanculo”
insegnanti e compagni di classe. E’ grave che molti revisionisti in questi
due-tre decenni abbiamo attribuito a Don Milani la responsabilità di un modello
che distruggeva il ruolo dell’insegnante, l’autorità e l’autorevolezza del docente.
Una falsità, che per chi l’afferma dimostra di conoscere Don Milani, una
persona di grande cultura con una vocazione adulta di straordinaria autonomia,
di elevata sensibilità sociale, con forte temperamento e senso dell’autorità.
¨
Don Milani contestava allora la selezione e la
bocciatura perché questa veniva sistematicamente usata contro i poveri (le
classi abbienti potevano disporre dell’insegnamento aggiuntivo e non solo) e
per porvi rimedio propose ai suoi allievi “emarginati e ritardati
socialmente nell’apprendimento” una scuola a tempo pieno con
programmi giornalieri fino a 8-10 ore;
così i debiti scolastici erano recuperati con rapidità nel ciclo di
studio. Don Milani era un educatore severo e a volte usava la “bacchetta” contro
chi fumava e giocava a carte, feroce con le ragazzine che volevano usare i cosmetici o andare a ballare come “quelle di
città” ma sicuramente non era un “bacchettone”: temeva il contesto in cui si
giocava a carte, si fumava e si beveva (troppo) vino in paesi in cui i
contadini si spezzavano la schiena da mane a sera e per i quali l’unico
divertimento era l’osteria con le possibili degradazioni che spesso si
ripercuotevano in violenze in famiglia. Diffidava dell’imitazione della
vita cittadina e non già dei cambiamenti della città.
¨
Quella pedagogia si fondava sul punto che “per
insegnare bisogna apprendere in continuazione” per potere rispondere alle domande
dei ragazzi ai quali si era data la parola; ciò aumentava il desiderio di “interessarsi
agli altri” in contrapposizione al popolare “chissenefrega”. Quel
programma scolastico di 8 e più ore giornaliere era ampio ed interessante: ad
esempio insegnava anche a leggere la musica, sugli spartiti della sesta
sinfonia di Beethoven, oppure ascoltare quella di Bob Dylan. Fuori programma
scolastico, alla sera, si guadavano e si studiavano le stelle, si ascoltava il
silenzio ed il “rumore” della notte. Vogliamo chiederci quale sia la modernità
ed il valore di un simile programma di studio?
¨
Quella scuola insegnava ad essere vigili e
critici verso gli apparati di potere, concetto che ribadì nella lettera
ai cappellani militari con quell’affermazione diventata celeberrima “
l’obbedienza non è sempre una virtù”; ed ovviamente anche di questa negli
anni seguenti se ne fece uso e consumo a piacimento per assegnare a Don Milani
un ruolo che non era nella sua indole: disobbedire per interessi personali, di
gruppo o corporativi di categorie.
L’obbedienza e la disobbedienza a cui si riferiva Don Milani riguardava grandi
imperativi dell’etica, della morale, della coscienza. Ma anche in questo la sua affermazione, come
quella relativa alla bocciatura ed alla selezione di classe, finì nel
tritatutto di coloro che molto hanno
scritto che includere nell’elenco dei “cattivi maestri” tutti coloro che
contestavano una realtà socialmente ingiusta.
Il suo fare insegnamento perseguiva il fine ultimo di liberazione, di
emancipazione, di autonomia della persona nel rigoroso rispetto dell’articolo 3
della Costituzione Italiana che recita “Tutti i cittadini hanno pari dignità
sociale e sono uguali davanti alla legge…..è compito della Repubblica rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e
l’uguaglianza dei cittadini…”; per questo insisteva nel concetto
dell’eguaglianza che precede quella relativa agli aspetti economici, insistendo
nell’eguaglianza dei “mezzi” per farti valere, per affermare le tue
possibilità, per superare la sudditanza culturale prima di quella economica.
Per questi fini, per dedicarsi al prossimo riteneva giusto spendersi
in tre campi: quello della scuola, del sindacato e della politica. Al sindacato
assegnava il ruolo innovativo di educatore delle cassi subalterne e povere che
per conquistare dignità, uguaglianza e partecipazione dovevano conoscere più di
chi li comandava.
Questo Convegno ha posto un interrogativo: a chi spedire oggi una
eventuale nuova lettera: ancora ai professori, oppure agli studenti o ai
genitori?
Non più all’indirizzo del 1967, ma multiplo: a quegli studenti che
praticano e diffondono con il bullismo arroganza, violenza ed ignoranza; a quei
genitori che delegittimano gli insegnanti facendo i difensori d’ufficio dei
propri figli quando vengono ripresi dagli insegnanti; a quegli insegnanti
sfiduciati che tirano avanti senza reagire. Un triplo indirizzo di minoranze
che oggi determina un declassamento della scuola non certamente voluto dalla
maggioranza (di allievi, di genitori e di professori) che però sembrano
impotenti o disinteressati. Forse perché manca un messaggio forte e chiaro che richiami
alla responsabilità collettiva ed all’innovazione com’era quello della Scuola
di Barbiana. O forse, più semplicemente,
perché quel vuoto potrebbe essere colmato rileggendo ed ammodernando (con il taze-bao
taglia incolla anche la lavagna interattiva ed Internet) il pensiero ed il
metodo pedagogico di Don Milani.
Adriano Serafino 27-10-2007
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