Quando l'Anpi ha deciso di dare alle stampe il “Tempo di guerra” a None, era mossa da un debito di riconoscenza verso le generazioni che hanno attraversato l'esperienza degli anni Trenta e Quaranta. Un dovere che andava assolto senza troppi calcoli di costi e di ricavi. Invece le ultime copie si vanno rapidamente esaurendo e, pur evitando di montarci la testa, possiamo parlare di un piccolo evento editoriale senza precedenti, specie se si considera che a None si legge poco come nel resto d'Italia.
Secondo, i concittadini hanno voluto esprimere un sentimento misto di riconoscenza verso nonni e genitori, di nostalgia per la propria infanzia e per la propria gioventù, di ribellione al mito del nuovo a tutti i costi che pretende di essere nel giusto solo perchè preso dalla furia di distruggere ogni traccia di passato.
Terzo: un libro così ci aiuta a vedere che siamo un incrocio ambiguo e fecondo di miglioramenti e di peggioramenti, di nuove libertà e nuove servitù, di vecchie rudimentali povertà della tasca che non sempre convivono con nuove più raffinate povertà dell'anima. E ci aiuta a distinguerle, che è il primo passo per combatterle.
Quarto: un libro così ci aiuta a scoprire in noi le radici di una sopita comune appartenenza cittadina che risveglia strane uguaglianze tra chi a None è nato e chi a None è arrivato, come se una sotterranea ma operante unità spirituale misteriosamente ci tenesse legati, al di là dei nostri quotidiani conflitti tra le classi, i redditi, le fedi religiose, i mestieri, le provenienze, le ideologie. La memoria di Nicola, fissata e liberata in quel libro che ora è nella casa di tante famiglie, non è più “materia dell'anonimo narratore orale” (come direbbe
Calvino).
E' diventata patrimonio collettivo e funziona come un'autorità spirituale desiderata e condivisa. Per dirla con Zygmunt Bauman, rappresenta una “comunità, la sua unità, la sua persistenza genuina”.
D'altra parte, la guerra “non aveva risparmiato nessuno”, ha scritto
Italo
Calvino
nella
prefazione
a
“Il sentiero dei nidi di ragno”, e ognuno era carico di storie da raccontare.
“Ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca (..) nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d'olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle 'mense del popolo', ogni donna nelle code ai negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d'altre epoche”.
Ecco il pregio di “Tempo di guerra”: ha ripescato
un'ondata di altri ricordi,
con
richieste
di
aggiungere,
arricchire,
chiarire,
persino
correggere
gli
stessi
o
altri
episodi,
eventi,
retroscena
e
personaggi.
Se
un
libro
solleva
il
desiderio
di
scriverne
altri,
ha
raggiunto
il
suo
obiettivo,
che
è
quello
di
movimentare
il
pensiero
e
allenare
tutti
nella
grande
palestra
della
ricerca
e
del
libero
confronto.
Un
valido
aiuto
per
chi
preferisce
vivere
in
modo
consapevole.
Mario
Dellacqua
È vero, "Tempo di guerra" ha fatto da catalizzatore di molte cose. Mi fa piacere che Mario citi "chi a None è nato e chi a None è arrivato". Il libro "Terracarne" di F. Arminio, che parla di paesi scomparsi, di comunità snaturate ma rimaste compatte, mi ha fatto riflettere molto. None, come molta parte del Nord Italia, è diventato un crogiolo. Mi stupisco sempre quando a Catania, appena apro bocca, mi dicono: "Ah, ma tu non sei di qui!". Frase che a None o a Milano non verrebbe mai detta: perché è normale che ci siano accenti, tradizioni differenti. È una ricchezza enorme, a cui diamo poco peso. Credo che il prossimo "centro di memoria" che farà da collante sarà l'emigrazione e il "trauma" vissuto da chi già c'era. Per la seconda o la terza generazione, probabilmente...
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